Si propone qui di seguito il testo presente nel risvolto a “Diario perpetuo”, a cura di Giovanni Maccari, Milano, Adelphi, 2012. Il volume raccogli gli elzeviri composti da Tommaso Landolfi tra il 1967 e il 1978.

 

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Copertina di “Diario perpetuo”

Fantasie che prendono improvvisamente corpo diffondendo un odore di morte, inspiegabili visioni notturne di un volto umano librato contro un angolo della stanza e la falla sempre in agguato nel tessuto delle apparenze; esistenze che si trascinano per mera forza di volontà o per assurda scommessa come a un tavolo di chemin de fer e il vano tentativo di contrastare il tempo che «reclama con ansia ed angoscia accadimenti»; l’impossibilità di trovare il chiarimento che cerchiamo e la volontà di morte «quale unica possibile dignità, in fondo a ciascun uomo». Sono i motivi fascinosi e allarmanti che subito ci afferrano allorché leggiamo gli elzeviri landolfiani apparsi sul «Corriere della Sera» fra il 1967 e il 1978, e che avrebbero dovuto comporre – se non fosse sopraggiunta la morte dello scrittore – un volume da af­fiancare a Un paniere di chiocciole (1968) e Del meno (1978). Beffardi pezzi di prosa, «innocenti raccontini», amari fram­menti di memoria ai quali è affidato l’assoluto disincanto di un Landolfi che ormai ritiene occorra «una tal quale dose di follia per raccontare una storia», ma non sa e non può rinunciare all’ultima sua risorsa: la scrittura nella sua chimica, provocatoria purezza.

Landolfi senza luna

di ELENA FRONTALONI
 

 

Dei versi di Umberto Saba, Giovanni Raboni apprezzava soprattutto la levigatezza immediata del dire, nemica del critico-scalatore che si getta sulle oscurità del testo poetico per comprenderlo e spiegarlo (complicarlo) con affilati strumenti d’analisi formale. Tra gli strumenti nemmeno tanto affilati, c’è la ricerca delle fonti e delle citazioni dai classici; e quando si tentano simili operazioni per testi poetici del Novecento, stilare la tabella dei debiti dai Canti di Leopardi sembra un passaggio ghiotto e obbligato. Ghiottissimo il caso delle poesie di Tommaso Landolfi: una recente edizione di Viola di morte (diario in versi e prima raccolta poetica dello scrittore di Pico, del 1972, uscita di nuovo nel 2011 per Adelphi) dimostra come questo libro sia costruito interamente col linguaggio della tradizione letteraria e assai ricco di riferimenti leopardiani. Peccato che questi ultimi siano in più occasioni fin troppo smaccati. Il risultato è che in maniera speculare ma al contempo simile di come può capitare con Saba, il critico-scalatore viene disarmato da Viola di morte perché il prestito, o il tradimento, è spesso talmente riconoscibile da dar l’impressione di nascondere qualcos’altro – anche solo un ghigno («par quasi io conosca Leopardi e la sua opera, come deve aver affermato un recensore buontempone», si legge in uno dei primi appunti di Rien va, diario in prosa pubblicato da Landolfi nel 1963).
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