L’azzardo felice – il “Preferirei di sì” di Tommaso Landolfi
di VALENTINA GIANFRANCESCO
Qualche mese fa lo scrittore americano Philip Roth, quasi ottantenne e con trentuno libri alle spalle, ha dichiarato la sua resa bartlebyana alla penna.
Un post-it sul suo computer gli annuncia che la lotta con la scrittura stava volgendo a una conclusione e che d’ora in avanti, finalmente, avrebbe potuto “godersi la vita”. «So che non riuscirò più a scrivere bene come scrivevo prima. Non ho più la forza per sopportare la frustrazione. Scrivere è una frustrazione, una frustrazione quotidiana, per non parlare dell’umiliazione». Quasi a voler giustificare il proprio gesto, Roth elenca le pene del mestiere di scrittore e ricorda un cavaliere in pensione, il cui destino, ormai tristemente segnato, lo consegna a una vecchiaia tutto sommato tranquilla in compagnia della sua spada spezzata.
Il giornalista, con maliziosa ironia, indaga nel suo quotidiano: dunque, come riempirà ora il suo tempo Philip Roth? L’ex scrittore, però, subito lo rassicura: «Casa mia quest’estate era piena di gente», dice. «Ho avuto ospiti praticamente tutti i weekend, e a volte sono rimasti anche durante la settimana. Ora ho un cuoco che cucina per me»; e infine, in un crescendo di disinvoltura, mostra con orgoglio il suo iPhone: «Sono due mesi che non leggo una parola. Ho tirato fuori questo affare e ci gioco». Una ribellione in piena regola, insomma; un “I would prefer not” dai toni ben più leggeri, eppure non meno tragici di quelli del personaggio di Melville.
L’ambiguità del gesto di Roth, questo malinconico, anche se apparentemente felice abbandono del palcoscenico letterario rievoca alla mente dei versi di Tommaso Landolfi citati da Geno Pampaloni in un suo saggio: «Dovunque la penna arriva/ si ritira il suicidio./ Così, dicesi, il cane/guarisce ogni sua piaga/ se soltanto l’arriva colla lingua»(1).
In questo caso, la scrittura non sarebbe più “una frustrazione”, come la definiva Roth, ma anzi un antidoto contro il suicidio. Meglio ancora: la lingua guaritrice del cane che si umetta le ferite.
Un uomo che quindi possiede il dono della scrittura e può vantare la grande fortuna di riuscire, grazie a questo talento, ad allontanare la morte, perché dovrebbe rinunciarvi? Perché perdere spontaneamente la possibilità di rendere eterna la persistenza della propria coscienza?
Forse la risposta è in queste parole di Tommaso Landolfi: «Ho mai amato il mio lavoro? No perdio: ho il piacere e il vanto di affermare che esso mi ha sempre disgustato. (Mi calunnio, e calunnio, ancora)»(2).
Quello che a una prima lettura può sembrare lo sfogo un po’ snob di un dandy, è invece la schietta e preziosa confessione di uno scrittore; si tratta in fondo della stessa frustrazione di cui parlava Roth, ma resa ancora più insopportabile dal disgusto che provoca.
Tommaso Landolfi non era uno scrittore popolare quanto Philip Roth, ma è stato prolifico quasi quanto lui e, chissà, forse non avrebbe abbandonato il suo lavoro se la malattia non gli avesse materialmente impedito la sua prosecuzione. Durante tutta la sua vita non ha mai speso parole dolci nei confronti della scrittura, anzi l’ha sbeffeggiata e disprezzata e l’idea di poter essere qualcuno negli ambienti letterari lo ha sempre inorridito. Eppure, la letteratura italiana non ha mai conosciuto un autore più “innamorato” delle parole: «Avevo una sorta di religioso, e superstizioso amore e terrore per le parole (che mi è rimasto poi a lungo) […] più semplicemente, le parole erano quasi le mie sole realtà»(3). Questa devozione così profonda sembra stridere con l’affermazione precedente: come può uno scrittore provare un tale amore per le parole e poi essere disgustato dal suo lavoro? Se volessimo associare Landolfi alla folta schiera degli “scrittori del no”- quelli che, in modo elegantemente ironico, Enrique Vila-Matas ha riunito e raccontato nel libro Bartleby e compagnia -, dovremmo allora dimenticare la dedizione e la passione con cui Landolfi ha dato vita su carta alle sue magnifiche e tremende ossessioni. Non si può parlare di un’afasia landolfiana, né di una crisi che impedisce alla penna di poggiarsi sul foglio. Quello che rende lo scrittore di Pico unico nel suo rapporto con la parola è una sorta di bipolarismo letterario: da una parte è il più raffinato cesellatore di parole del nostro Novecento, dall’altra il simbolo di un estremo rifiuto nei confronti della società. “Non voglio scrivere né essere scritto”, amava ripetere Landolfi; lo spiega Carlo Bo: «Tutto quanto sapeva di organizzazione, di istituzione gli ripugnava: l’importante, la cosa in assoluto più importante per lui era lasciare agli uomini tutta la libertà possibile, non illuderli, non ingannarli. […] A Landolfi nessuna società umana appariva fornita dei miracoli, delle sorprese e dei rovesciamenti capitali che al contrario il giuoco potrebbe consentire. Del resto, la letteratura, lo scrivere in Landolfi godevano dello stesso privilegio e, se guardiamo bene, alla sua vocazione ha sacrificato la sua stessa vita».
La letteratura come il gioco, e se il gioco è governato dal caso – sebbene lo stesso Landolfi ci dica più volte che il caso non esiste, una volta giunti al cospetto del tavolo verde – anche la scrittura dovrebbe esserlo. Niente è più disciplinato, ossessivo ed esatto in Tommaso Landolfi. «Non si può vivere se non a caso», è il famoso precetto landolfiano; mai e poi mai, però, si potrebbe scrivere a caso. Che cosa fare, allora? Necessariamente, continuare a scrivere, poiché l’unica realtà accettabile è proprio quella della scrittura, ma nel contempo negare alla scrittura qualsivoglia valore salvifico.
Sbandierare il proprio personalissimo “Preferirei di no”, ma con l’abilità di un prestigiatore nascondere la mano che continua a scrivere. E poi scrivere di che cosa? «(Daccapo la mia sconfinata ammirazione per gli scrittori che sanno annodare un intreccio, immaginare circostanze materiali, etc.). In conclusione la mia scrittura e io soffriamo di mal di vuoto. E sono io quello, quella cipolla fatta solo di spoglie…»(4).
Una scrittura fatta di “parole viticci”, come aveva detto in Des mois; parole che sembravano avulse dalla realtà fenomenica. Eppure Landolfi è stato uno scrittore sciamanico come nessun altro: ha dato vita a creature fatte di carta e sangue che venivano a trovarlo nella sua dimora di campagna. Se avesse smesso di scrivere, probabilmente il Porrovio sarebbe venuto a cercarlo, reclamando attenzione. E nulla sembrava più vero, allo scrittore, di questi Frankenstein di cellulosa; ai suoi occhi essi erano meno atroci della realtà e averli tutti lì, ai suoi piedi, accanto al tavolino, non era poi così male.
La casa di Pico come La casa degli Usher, il luogo dove tutto si crea e si distrugge, lo spazio della fantasia e della scrittura, dal quale non si può uscire finché non si è smesso di scrivere. «E dico: può esser vita questa? Ho sempre odiato il tavolino»(5). Di certo non era la vita che il giocatore spregiudicato e l’affascinante seduttore avevano immaginato; e infatti ecco ciò che Landolfi conclude nella pagine del suo diario: «Che mi importa di tutto? Io vorrei fare il pensionato sulla Costa azzurra, è la mia sola aspirazione: una specie di bella e stupida epoca dell’anima, un’attesa non angosciosa e incolpevole della morte»(6). I lettori di Landolfi non riuscirebbero mai a immaginarlo in questa cornice, finalmente riconciliato con se stesso e con il mondo, libero dalla schiavitù del tavolino e magari con qualche ritrovato tecnologico a intrattenerlo; come è accaduto a Philip Roth.
Se l’uomo poteva sicuramente sognare una vecchiaia del genere, lo scrittore invece sapeva bene che molto peggio della scrittura sarebbe stato l’inferno silente dei giorni inerti, di quelli in cui siamo muti, sgomenti e soli di fronte all’insensatezza della vita.
Proprio per questo, per quanto l’affermazione avrebbe fatto raccapriccio all’autore delle Due zittelle, le parole sono state il vero azzardo felice di Tommaso Landolfi; in una parola, sono state davvero un antidoto alla morte (o alla vita, ché in Landolfi fa tutt’uno).
Perché se è vero quello che diceva Pirandello, «la vita o si vive o si scrive», allora Tommaso Landolfi l’ha scritta e, con enorme fatica e impareggiabile eleganza, ha tentato anche di viverla senza mentire mai al lettore.
Come dimenticare uno dei ritratti più belli dello scrittore, una foto scattata a Urbino in cui si vede solo una mano che copre il volto? Quasi la sineddoche perfetta: la parte che conta di più di uno scrittore. L’unica che i suoi lettori devono conoscere. Ecco perché Tommaso Landolfi non ce l’ha fatta a proclamare il suo “Preferirei di no” alla letteratura; sarebbe bello poterglielo dire oggi, anche solo per vedere il suo sorriso beffardo, timido e fulminante insieme e poter sentire le splendide, mirabolanti giustificazioni che potrebbe addurre.
Robert Walser, uno degli autori-Bartelby secondo Vila-Matas, sapeva che scrivere dell’impossibilità di scrivere è comunque scrivere. Sicuramente lo sapeva anche Landolfi, ma se lo avesse ammesso avrebbe tradito il mistero che deve restare ben celato nella mente e nel cuore di uno scrittore. E avremmo perso uno degli autori più originali della nostra letteratura.
NOTE
(1) Cfr. G. PAMPALONI, Il critico giornaliero, Scritti militanti di letteratura 1948-1993, a cura di Giuseppe Leonelli, Torino, Bollati Boringhieri, 2001, p. 395.
(2) T. LANDOLFI, Rien va, Milano, Adelphi, 1998, p.97.
(3) ID., Prefigurazioni: Prato, in Ombre, in Opere I, Milano, Rizzoli, 1992, p. 744.
(4) ID., Rien va, cit., p. 137.
(5) Ivi, p.108.
(6) Ivi, p. 93.