Proponiamo qui una parte del saggio di Michele Mari su Tommaso Landolfi, incluso nella raccolta I demoni e la pasta sfoglia (Il Saggiatore, Milano, 2017). Il saggio è apparso originariamente nel volume La Liquida vertigine: atti delle Giornate di studio su Tommaso Landolfi (Olschki, Firenze, 2002) con il titolo Tre forme della fantasia landolfiana e ripubblicato per Il Saggiatore in una forma differente. Il brano che qui presentiamo si riferisce alla prima di queste tre forme e si muove intorno al tema della “casa”. Ringraziamo l’editore e l’autore per averci concesso la possibilità di pubblicare questo estratto.
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di Michele Mari
Per lo stile di ogni scrittore i temi, le situazioni, gli oggetti non sono meno decisivi del lessico o del ritmo o del tono, così come una forma mentis sillogistica o un gusto enciclopedico sono fattori non meno formali di una citazione virgiliana o di un ossimoro. Naturalmente occorre distinguere la frequenza tematica che sia riflesso di una continuità ambientativa da libro a libro da quella meno scontata frequenza che, trasversale agli argomenti e spesso an- che ai generi, è tanto più apparentemente gratuita quanto più, per ciò stesso, è riconducibile – come sublimazione manieristica – a un’ossessione (distinzione meno ovvia di quanto si possa pensare immediatamente, giacché non è raro che questo secondo tipo di frequenza produca a sua volta l’illusione che l’autore scriva sempre lo stesso libro). Ora non c’è dubbio che Landolfi – il “fantastico” Landolfi – non ponga limiti ai propri capricci, passando dai vermi parlanti e dalle scimmie che celebrano messa ai briganti ottocenteschi e alle lune cadute nei camini (o dalla città alla provincia, o da un secolo all’altro) con la stessa volubilità con cui passa dal falsetto cerimonioso a quello loico-dimostrativo, dal lirismo al pastiche antiquario, dal favolismo al matematismo; eppure c’è sempre una inconfondibile maniera a rendere ogni testo landolfiano continuo agli altri (almeno fino agli anni cinquanta): tanto più in- confondibile quanto più il manierismo di Landolfi, disponendosi en abîme, è, e stupefacentemente è fin dal libro d’esordio, un auto-manierismo. Fra i principali elementi del quale è senz’altro l’orgogliosa professione (che non è snobismo o dandismo, ma sempre autentico dispetto) di aristocraticità, alla cui coerenza si è poi legata l’aura magica che ha accompagnato questo scrittore.
Ora, senza entrare nel merito delle suggestioni che in tal senso gli veni- vano dalla sua schiatta e dal palazzo avito, mi sembra potentissima in lui una preoccupazione di inattualità, la quale come induce alla lingua una patina antica e arcaismi tanto significativi quanto obsoleti (pointe di una concezione antirealistica e antipedagogica della letteratura), così suscita di testo in testo dimore che sono anche e soprattutto una poetica: case nobili disfunzionali nella loro vastità come un Tommaseo-Bellini e pateticamente eloquenti nel loro stato d’abbandono; case-tempo, case-moralità o case-manifesto solitarie e spesso abitate da un unico inquilino, case-labirinto, case-museo e case-cimitero, esoteriche, oniriche, fantasmatiche; case-letteratura e case-stile insomma, case-Landolfi (così come la casa Usher, la casa di Asterione e la fortezza della Casa sono rispettivamente una casa-Poe, una casa- Borges e una casa-Gadda). Colpisce la sistematicità con cui Landolfi rimane fedele al suo modello, dalla «grande casa ormai senza abitatori» di Maria Giuseppa a quella di Tale nella Morte del re di Francia alla «grande casa abbandonata» in cui si reclude il Federico di Mani alla «vecchia casa di trentaquattro stanze» di Settimana di sole alla «grande e antica villa» di Ombre alle «vecchie stanze che sentivano la muffa» di Ragazze di provincia al «decrepito maniero» abitato da Gurù nella Pietra lunare agli altri castelli sparsi nella Spada, nel Babbo di Kafka e nel Matrimonio segreto fino a quella «stregata dimora» che nel suo «fastoso abbandono» è la vera protagonista del Racconto d’autunno: perfetta casa diacronica (ancora il Tommaseo-Bellini, o il Battaglia) in cui l’energia del passato si è plasticamente reificata: «su tutto era stesa la polvere del tempo, non la polvere, la particolare opacità delle cose morte, dovunque era il senso di gesti rappresi nell’aria».
Scenari tutti che, indipendentemente dall’epoca dell’ambientazione, Landolfi provvede poi ad arredare con ogni sorta di antichità e di anticaglia, con un’escursione discendente che va dai fiabeschi-araldici «ermellini, rasi e zendadi» della Piccola apocalisse (o siano le «sete e trine d’antica foggia» della Settimana di sole) e dalla fatata spada del racconto omonimo alla già meno fastosa «vecchia sciabola» di Maria Giuseppa (oppure: «un candeliere a becco», o in Mani «una vetusta bugia») agli indumenti connotati quasi comicamente nella Settimana di sole (un «panciotto settecentesco», «una lunga zimarra», «un paio di mutande col volano») fino al «ciarpame» del Babbo di Kafka («uno sgombero pieno d’oggetti polverosi»): ciarpame che tuttavia nel suo stesso caos e nella sua stessa polvere conserva ancora un barlume di sublimità, ciò che invece manca ai più familiari oggetti che Landolfi liquida per solito con l’aggettivo «vecchio». Livello mediocre, questo, che consente un ulteriore abbassamento quando si consideri l’infimità di un oggetto (uno dei primissimi oggetti proposti da Landolfi ai suoi lettori) come il «pallone riempito di stracci» con cui giocano Maria Giuseppa e il suo padrone.Nell’insieme, dunque, un campionario (interamente riproposto con acme iterativa nel Racconto d’autunno) che sembra fatto apposta per illustrare le categorie dell’obsoleto individuate da Francesco Orlando in un saggio intitolato a Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura, saggio in cui la completa assenza del nome di Landolfi, considerata la quantità dei presenti, è forse la cosa più sorprendente. Tanto più se, come argome ta Orlando, la pregnanza letteraria e il valore simbolico delle cose vecchie e rovinate sono inversamente proporzionali alla loro utilità e funzionalità.
Da questo punto di vista pochi scrittori sono simbolisti come Landolfi, intendendo per simbolismo non un consapevole procedimento di significazione a chiave ma una predisposizione formale (propria del grande romanticismo) a prospettare le cose e gli eventi solo obliquamente, metafisicamente, ironicamente. Così una vecchia casa può essere una tomba come nel Ladro – o con le tombe stabilire una dialettica di continuità come all’inizio e alla fine di Maria Giuseppa – oppure, senza che le due cose si escludano, può essere vichianamente l’età barbara «dove tutto importa» (dove tutto è magico, appunto), «dove il linguaggio stesso è un’eco di tempi meno volgari», in quella provincia trascurata dall’illuminismo «dove disumanamente e nobilmente si muore per un puntiglio, e ci si può perdere per una parola», che è una delle più belle professioni di inattualità o religiosità letteraria lasciateci da uno scrittore (il quale avrà in quel tipo di casa il «regno di Nettuno», pianeta della solitudine, dell’ispirazione, della follia e dell’angoscia, secondo dichiara la conclusione della BIERE DU PECHEUR).
Ma la casa landolfiana è naturalmente anche altro, come suggerisce un capitolo di Del meno intitolato appunto Una casa; qui, celebrando una volta di più «la casa avita per tanti anni abbandonata», e associando in un unico impallidimento la carta da parati e le fotografie dei defunti, Landolfi riconosce se stesso in «codeste immagini di decadimento e di morte», dalla «perduta gioventù» a «tutti i suoi fallimenti passati, presenti e futuri»: quella casa «era sempre stata ed era la sua cassa armonica […]; essa, per altro riguardo, non aveva fatto che accentuare il proprio carattere di desolazione, e in questo o questa appunto risiedeva la sua forza ispiratrice». Non inganni il sentore di didascalismo, che è solo un effetto del montaggio delle citazioni: al contrario il testo in questione, a dispetto della sua natura di elzeviro, non ha nulla di saggistico perché tutto in esso è simbolicamente saturo e intrattabile. E i simboli non solo si sovrappongono fra di loro, ma l’uno dall’altro anche si generano: così alla fine la casa (proprio come la letteratura) è insieme madre e figlia dello scrittore, che da lei espresso e in lei cresciuto a lei deve tornare per scontare la colpa dei suoi compromessi con il mondo: «Di questo insomma lo rimproverava la vecchia casa […]; di questo tradimento, di questo cedimento a una diversa vita o sia alla vita senza più […]. Dunque io – intendeva certo, la casa – io quale tua genitrice e tua creatura non ti bastavo, che dovevi correre la pessima e corporale avventura della moglie, dei figliuoli, d’un mondo di forme gravi […]?». È appena il caso di ricordare, credo, che al tempo dei suoi primi ritorni alla casa della letteratura o alla letteratura della casa Landolfi non aveva ancora né moglie né figli e (all’altezza di Maria Giuseppa, che è del 1929) aveva poco più di vent’anni: segno, dunque, di una perentoria vocazione e del suo sostrato ossessivo; vocazione che egli stesso riconosce retrospettivamente parlando del suo arrivo al «vecchio e classico Cicognini» in termini di prefigurazione (Prefigurazioni: Prato).
Ma naturalmente questo non significherebbe molto se Landolfi non fosse uno di quegli scrittori in cui l’oltranza nevrotica del sistema fantastico, il quale è la matrice e la cornice di ogni immagine, si accompagna e quasi si filtra in una corrispondente oltranza linguistica. In lui veramente la parola è la cosa e viceversa: il «giamberghino» di Maria Giuseppa, ad esempio, è attivo nel racconto e vive nel lettore come oggetto o come suono o non piuttosto come entrambi, ma in quanto suono? Esattamente come la lingua «perduta», inconoscibile e intraducibile e per questo «bellissima, bellissima», del Dialogo dei massimi sistemi; o come nell’apparente (perché in realtà drammatico al pari di un patto di sangue) vezzo di un’enclitica nel Matrimonio segreto: «Allora?». «Furonvi le successive divisioni.» «Perché dite “furonvi” e non “vi furono”?» «Signore, prendetemi come sono. Furonvi, dico, le successive divisioni; l’ultima alla fine dello scorso secolo.» E come Landolfi dice del suo Ottavio di Saint-Vincent, così anche noi possiamo dire di lui: «In fondo questa raffinatezza, questa bellezza, e soprattutto questo linguaggio, non erano ciò che egli aveva sempre sognato? Non erano, per così dire, il suo clima naturale?».