Pubblichiamo il saggio di Paolo Zublena La mistificazione virtuosa (o quasi). Il “caso” Landolfi secondo Sanguineti, che si trova in Edoardo Sanguineti e il gioco paziente della critica. Scritti dispersi 1948-1965. Con un’appendice di contributi su Sanguineti critico, a cura di Gian Luca Picconi e Erminio Risso, Milano, Edizioni del Verri, 2017, pp. 296-312. Il saggio di Zublena, recita l’abstract, ripercorre “il lungo itinerario critico di Edoardo Sanguineti a proposito di Tommaso Landolfi, cercando di delineare le tappe dell’interpretazione (in primo luogo politica) sanguinetiana e i motivi dell’interesse suscitato in Sanguineti dal manierismo landolfiano”. Ringraziamo l’autore e l’editore per averci permesso di pubblicare questo saggio.
di Paolo Zublena
Nel perimetro di un interesse non episodico ma nemmeno preponderante per la narrativa novecentesca, più acuta tra l’altro – in modalità militante – nel primo periodo dell’attività di Sanguineti critico, l’attenzione per Landolfi risulta, se non proprio centrale, tuttavia cospicua e tutt’altro che marginale. Tale insomma da far pensare che Landolfi rappresentasse per Sanguineti non solo un autore di sicuro valore dal punto di vista della riuscita estetica, ma anche – e per certi versi in possibile tensione dialettica con lo stesso aspetto estetico – un caso di interesse sintomatico per diagnosticare una tendenza rilevante della letteratura italiana novecentesca (e magari non solo della letteratura, e non solo italiana). Ma, lo diciamo subito e a scanso di equivoci, a Sanguineti Landolfi doveva comunque piacere – e lo dimostrano non rari asserti di contenuto valutativo che si trovano anche non di rado in mezzo alle zone di indagine meno consentanee. Sia il valore estetico, sia – ma in misura minore – l’importanza diagnostica di Landolfi potrebbero porre un problema di fronte al ben noto rifiuto di Sanguineti per tutto quel che nel Novecento non è assimilabile al campo delle avanguardie. Non si deve però naturalmente pensare a una inavvertita contraddizione del critico, bensì a una acuta e anche precoce lettura dell’ambiguità di Landolfi stesso, ideologicamente – fin banale dirlo – lontanissimo da Sanguineti e dalle avanguardie, ma dal punto di vista stilistico, della strategia narrativa, delle inquietudini tematiche altrettanto lontano dal mainstream della narrativa italiana novecentesca – dalle sue corde più tradizionali, sia da quelle più piane sia da quelle più espressionistiche. Proprio la lontananza da quell’alveo deve aver sollecitato e mantenuto vivo l’interesse di Sanguineti: interesse che, per altro, risulta non certo maggioritario nell’ambito del Gruppo 63, se è vero che forse il solo Giuliani (per altro, non prestissimo), e in una sua maniera ambivalente e certo non slegata dall’angoscia dell’influenza, l’altro grande manierista della narrativa italiana novecentesca – e si intende ovviamente Manganelli – hanno prestato un interesse critico caratterizzato da pieno apprezzamento estetico per la scrittura landolfiana (1).
Il fatto che Landolfi costituisse un interesse non di secondo piano per Sanguineti è testimoniato se non altro dalla presenza di tre saggi di oggetto landolfiano nelle due opere che ripercorrono nella parte finale della sua vita il confronto del critico con la storia della letteratura italiana e con la cultura contemporanea, Il chierico organico e Cultura e realtà. In primo luogo il profilo per la Letteratura italiana Marzorati del 1963, e poi, a chiusura del cerchio, i due saggi su Nuove rivelazioni della psiche umana. L’uomo di Mannheim e sulla BIERE DU PECHEUR, entrambi datati 1989 (data oltre la quale non si registrano ulteriori testi dedicati a Landolfi). Nel frattempo Sanguineti aveva dedicato due recensioni alla tarda raccolta A caso, e un’altra recensione al postumo e raccogliticcio Gioco della torre.
Ma l’esordio landolfiano di Sanguineti (2) avviene in una data piuttosto alta (ottobre 1959), e in una sede di grande rilievo – e di indubbia alta temperatura militante – come il primo “verri”. Può stupire, quindi, che la scelta sia caduta su un’opera apparentemente marginale come il Landolfo VI di Benevento – opera non certo tra le più note e diffusi tra quelle di Landolfi – e la pregevole e limitata stampa vallecchiana ne era già un primo segno. D’altro canto dalla recensione risulta già una conoscenza sicura e diffusa dell’opera landolfiana, che poi verrà messa a frutto nel profilo datato 1962 (e destinato a uscire nel 1963). Tuttavia ci si può e ci si deve chiedere che cosa possa aver spinto Sanguineti a recensire proprio il Landolfo. Certo, si diceva, un già vivo interesse per Landolfi. Ma non anche una qualche armonica destata dall’evidente modello adelchiano del Landolfo, per altro ricordato nella recensione – essendo per Sanguineti le morti di Adelchi, Ermengarda e del Carmagnola l’indiscutibile vetta poetica della scrittura di Manzoni? (3) L’attenzione per la morte di Landolfo è massima nella breve recensione, in cui si parla senz’altro di «tragedia in versi nella linea dell’Adelchi». L’altro conseguimento critico verte sul riconoscimento di quello che per Sanguineti è il principale movente della scrittura di Landolfi, la rappresentazione dell’inerzia e soprattutto dall’accidia come marchio morale dell’intellettuale post-romantico e decadente. E importante è anche il rilievo sulla compresenza di maschera stilistica classicheggiante e reale urgenza della confessione: tanto che quest’opera ben più delle altre sarà saldata ai diari (a quello già venuto e al Rien va in via di costruzione). In questa direzione, «Il Landolfo VI di Benevento è […] la ‘tragedia segreta’ […] di Landolfi e conserva (ed esaspera) l’ambiguità ludica caratteristica del suo autore, così come conserva quell’impronta di privato documento che è poi, a dispetto di mille ghiribizzi, altrettanto particolare a Landolfi, a questo supremo (ed estremo) dell’involuzione ironico-letteraria del decadentismo romantico». Chiaro latino e già didattica valutazione di quel che in punta di recensione è fin da subito qualificato come «il ‘caso’ Landolfi».
E il «caso» Landolfi sarà oggetto di una trattazione memorabile in quello che è certo il testo più importante di Sanguineti su Landolfi – il profilo Marzorati –, ma anche – e non secondariamente, per la sua datazione molto alta – uno dei vertici della bibliografia critica su un autore la cui seconda «maniera» aveva appena iniziato a farsi intravedere – e Sanguineti lo nota subito con sicurezza, come si vedrà tra poco. Tra accenni di biografia, milieu culturale e modelli letterari, quel che viene subito messo a fuoco è il rapporto tra stile e scaturigini biografico-esistenziali dei temi. Non c’è dubbio che la «pura ragione verbale» abbia un «primato» «sopra la impura ragione pratica» (4). Il potere magico delle parole è sì provocato dall’«incontro del trauma con la novecentesca metafisica orfica, ormai da manuale» (5), ma la feroce presenza a testo del trauma immedicato fa sì che la letteratura non sistemi e irrigidisca la nevrosi (Sanguineti sente il bisogno di aggiungere «letteraria») in una sublimazione «chiusa e pacificata» (6). Di qui l’instancabile «giuoco di specchi» tra parole e cose, la cui formulazione più icastica Sanguineti coglie – come molti poi faranno – in un memorabile asserto della BIERE: «Sono anche stanco di questa mia scrittura, giacché stile non si vuol chiamare, falsamente classicheggiante, falsamente nervosa, falsamente sostenuta, falsamente abbandonata, e giù con tutte le altre falsità; possibile che io non sappia arrivare a una onesta umiltà e che le frasi mi nascano già tronfie dal cervello come Pallade armata dal… ecco che ci risiamo?» (7). Sanguineti qui scorge benissimo un carattere fondamentale della scrittura di Landolfi: l’ambivalenza, e i suoi moventi psichici. Proprio in alcune dal critico opportunamente citate degnità della BIERE «si vede l’ambivalenza di questo orfismo nevrotico (falsamente nevrotico) e irritato (falsamente irritato), che si corrode interiormente, criticamente, e nella nevrosi tenta l’ultima sua redenzione, per paradosso. Si capisce che non pochi critici lamentino che Landolfi sia uno scrittore che non si sa come prendere. La correzione è agevole: Landolfi è uno scrittore che non sa come farsi prendere»8. Si potrebbe avere a ridire sulla falsità della nevrosi (a meno che non si intenda – come probabilmente si deve – che ogni nevrosi convertita nella scrittura letteraria è per forza di cose ficta, finta, fittizia), e sull’opportunità di convocare la categoria dell’orfismo, quando bastava quella già spesa del romanticismo – di un romanticismo certo decadentisticamente avvitato su sé stesso: Landolfi, compagno di strada di tanti orfici e semi-orfici, è sempre troppo di secondo grado per essere davvero orfico lui stesso. Ma basterà certo la perfetta individuazione dell’ambivalenza, e del tentativo di rovesciare il tavolo della scrittura attraverso la carta o il colpo gobbo del paradosso.
Per quel che riguarda l’evoluzione della carriera landolfiana, Sanguineti parla senz’altro di «inizio folgorante, stupendamente maturo» con il Dialogo dei massimi sistemi (1937), in cui si registra «un’immagine morale e stilistica dell’autore perfettamente compiuta» (9). E le «quattordici perfette pagine» di Maria Giuseppa sono nientemeno che qualificate come «documento inequivocabile che un nuovo narratore, e narratore vero, entrava con sicurezza e prepotenza nel nostro quadro letterario» (10). E non sfugga, narratore – non scrittore –, se è vero che «quel narratore» «facendo la più raffinata delle ‘prose d’arte’, era intanto narratore di razza» (11). Il modo, o il prezzo, è quello del pastiche:
quel tale impasto di modi e di toni, quella bizzarra maniera di fare sempre il verso a qualcuno e a qualcosa, che non si sapeva poi bene che cosa esattamente fosse, e che sembravano essere tante persone e tante cose insieme, e troppe (e giù gli elenchi, allora, da Gogol al surrealismo), e che poi era soltanto l’uscire dal quadro dei generi riconosciuti, in un singolare processo di contaminazione. (12)
È indubbio che qui Sanguineti stia riecheggiando una a dir poco ingegnosa formula di Giacomo Debenedetti, risalente a un saggio del 1958, Il gioco di Ottavio, poi rifuso in un capitolo di Intermezzo, in cui la scrittura di tutto Landolfi, pur partendo dall’Ottavio di Saint-Vincent, viene ricondotta a «un pastiche superlativo di tutti gli scrittori che via via Landolfi sfiora col movimento sinuoso e veloce di un ciclista quando scansa il passante. Si dice pastiche, ma poi i nomi dei maestri, nella loro precisa identità, risultano irreperibili. Il proprio di Landolfi, questa che in passato si sarebbe chiamata la sua serietà, consiste nel fare il pastiche di un pastiche immaginario. Nello stabilire, tra sé e il proprio prodotto, il rapporto ironico di uno che riesce a spacciare la sua voce naturale per un falsetto» (13). E da Debenedetti vengono sia l’idea del pastiche di pastiche, sia quella della gestione ironica, mentre è tutta di Sanguineti l’indicazione della bizzarria, del volgere al ludico e al buffo: e del fatto che non sempre questa operazione, anche per eccesso di assiepamento, sia destinata a riuscire. Nella prima produzione di racconti comunque Sanguineti ravvisa spesso la «potente poesia landolfiana del ribrezzo e dell’orrore fisiologici» (attivo anche, o in altre parole spesso trasferito, nelle inquietanti presenze animali), e nel contempo «il perpetuo associarsi di fisico brivido e di intellettualismo maniaco, di astratta sensualità e di carnale evidenza, di sfrenata invenzione e di piatta mediocrità quotidiana, con cui Landolfi esplora il deserto delle idiosincrasie umane» (14). Anche qui è da rilevare il pionieristico avvistamento già nel primo Landolfi di un viluppo tra disagio pressoché somatico e astrazione autoriflessiva, che si vedrà poi all’opera in modalità diverse anche nel Landolfi successivo e soprattutto diaristico. Esemplare il giudizio su La donna nella pozzanghera, in cui si riconosce che «lo sposarsi di un sublime manieristico, un liberty tutto di testa, e di prepotente angoscia onirica, raggiunge uno schematismo che, nella sua astrazione paradigmatica, riesce perfetto, e insieme insopportabile nell’ostentazione del calcolo» (15). Il che, fatta semmai la tara di una firma critica sanguinetiana – la qualificazione di liberty –, è per il resto giudizio ancora oggi da condividere pienamente. Si citava anche un passo a proposito della compresenza di sfrenata invenzione e di piatta prosa della everyday life. Ecco che, in questo senso, La pietra lunare diventa testo paradigmatico:
la tensione che si pone tra il titolo arcano e il piano sottotitolo (“Scene della vita di provincia”) dichiara simbolicamente come il narratore punti, in questo racconto lungo, sopra quella mistura e alternanza di toni che era stata la sicura conquista del suo libro primo. E nel I capitolo, la transizione repentina dall’interno familiare e dalle monotone conversazioni, al clima magico e inquietante del notturno lunare, sul ponte dell’intervento di Gurù e della rivelazione della sua enigmatica natura, è tutto il segreto della maniera di Landolfi. (16)
Ambiguità condensata nel «capolavoro» di figura femminile landolfiana, e cioè appunto nella Gurù che già impone la sua inquietante doppia natura fin dal primo capitolo del breve romanzo (o lungo racconto che dire si voglia):
quella «logica continuazione» stabilita, in figura, tra l’aspetto umano e l’aspetto ferino della donna, quella mancanza di «soluzione» sono poi il frutto proiettivo, tutto in re, della «logica continuazione» che lo scrittore pone tra i suoi toni discordi, della mancanza di «soluzione» da lui perpetuamente stabilita tra i diversi registri, modestamente naturalistici o sfrenatamente fantastici, della sua arte inventiva. (17)
Gurù sintetizza, insomma, in figura di personaggio la dualità che sta alla base della narrativa di Landolfi. Il quale, per altro, pare a Sanguineti, come a molti altri, fondamentalmente scrittore di racconti – e il calo di tensione delle pagine seguenti al primo capitolo della Pietra lunare lo proverebbe. Il racconto che, invece, meglio realizza secondo Sanguineti la dialettica landolfiana tra fantastico e disincanto è l’eponimo del Mar delle blatte e altre storie, che si conclude con «quella dissoluzione caratteristica dell’incanto fantastico, che in certo modo è parallela all’‘Epilogo’ di La pietra lunare, ma con una sicurezza di movimenti e con una così pertinente deduzione, che in tutta la produzione dello scrittore raramente potrà incontrarsi qualcosa di equivalente» (18). E, prima del disincanto, forse non a caso si potrà ravvisare il punto di maggiore tangenza, magari quanto si vuole poligenetica e occasionale, con quel connubio di onirismo ed erotismo che è caratteristico dell’avanguardia surrealista. Non fosse, appunto, per il disincanto, per il ritorno alla realtà feriale, per la dissoluzione dell’incanto. Dopo il mirabile trittico iniziale (Dialogo dei massimi sistemi, La pietra lunare, Il mar delle blatte e altre storie, con il volgere al termine degli anni ’30, ormai, «Il pericolo di Landolfi […] è […] un troppo di virtuosismo, una terribile sicurezza di plasticità stilistica, un gusto, già tutto autosufficiente, di mimesi verbale». I racconti della Spada «sostituiscono, alla primitiva moralità del narrato, alla rivelazione di un inquietante cosmo fantastico, il divertimento parodico e un umorismo tutto di testa» (19). E qui è difficile non convenire, anche se più avanti Sanguineti tornerà, nel saggio di “Gradiva”, su questa «mimesi verbale» come operazione parodica con rasoio più acuminato. Ma di questo oltre. Con Le due zittelle (1945) inizierebbe, per una certa presenza esplicita e ostentata della soggettività del narratore – e nonostante alcuni tratti in continuità con il passato, come polemica antiantropocentrica e la presenza, qui tragica, della radicale alterità animale, con il riconoscimento della morte di Tombo come pagina di suprema e a un tempo contenuta commozione –, un periodo di evidente crisi. La quale crisi si manifesta con piena evidenza nel Racconto d’autunno, di cui curiosamente Sanguineti non ritiene opportuno ricordare la vistosa matrice poeiana, ma genericamente segnala una allure decadente «di narrativa del mistero, tra il poliziesco e il liberty» (20). Anche qui di liberty però se ne vede – mi pare – poco, e se la crisi c’è – o piuttosto un ispessirsi del livello tragico della maschera manierista nella forma della parodia seria – essa è appunto data da un approdo estremo e non ulteriormente superabile dell’accoppiamento tra una modalità stilistica manieristica e una tematica decadente tragica. Più oltre non si potrà andare se non volgendo al falsetto o allo scherzo, oppure – e con maggior forza – alla strana forma di autobiografismo più o meno travestito dei diari. In questo senso Sanguineti coglie bene come Cancroregina (per eccesso di gogolismo), l’Ottavio di Saint-Vincent (parodia di conte settecentesco) o – ma con diverso investimento – il Landolfo VI di Benevento volgano tutte verso la «cristallizzazione» di una maniera, mentre il carattere di «confessione incredibilmente ingenua» (21) che pure anima queste opere, viene ben altrimenti – e con la solita ambiguità – espresso nel fondamentale diario, e vero testo di svolta, che è la BIERE DU PECHEUR.
Di qui la denuncia – in punta di profilo – della «cristallizzazione allegorica» del Landolfi extradiaristico anni ’50, produttore ormai quasi seriale di racconti in cui è evidente «l’irrigidirsi esperto della sua maniera», e anche e ancor più la vigorosa difesa – nei diari, ma qui evidentemente soltanto nella BIERE – della «forza di confessione con cui Landolfi affronta, fuori di ogni mediazione, il vero suo motivo estremo, la fine di una letteratura come vita, rivelantesi, crudamente, una letteratura come morte» (22). Landolfi alla «letteratura come vita» non ci aveva mai creduto, nemmeno negli anni supposti d’oro delle brigate fiorentine, ma ora la BIERE può caricare su di sé il ruolo di «già discreto e già abbastanza responsabile sintomo» di «un’intiera stagione della nostra civiltà delle lettere» che «pare acquistare di sé […] una funebre consapevolezza»: quella della nobiltà decaduta, dell’aristocratico fatto inetto e mitologizzato come tale: «E qui, l’allegoria che Landolfi non ha posto, inevitabilmente deve porla il critico»23. Allegoria magari no, ma ambivalenza c’era anche in questa autorappresentazione di Landolfi, che – se non metterà mai in discussione la propria ideologia, letteraria e no – per via tematica, lo farà certo e sempre più attraverso l’attacco masochistico alla perfezione manieristica dello stile24. Ma qui siamo ancora nel 1962, e Rien va – forse il capolavoro diaristico, in cui esploderanno del tutto crisi autoriflessiva e sua rappresentazione stilistica, ambivalente al quadrato – è ancora nei cassetti di Landolfi o al massimo sui tavoli di Vallecchi.
E – direttamente – con quel Landolfi Sanguineti per un po’ non si misurerà. Incontri occasionali, come la doppia recensione al volume rizzoliano di racconti A caso, non cambiano di molto le carte in tavola, salvo fornire il destro – quanto al pezzo intitolato in ultima versione Un seno a caso – di una pertinente interpretazione freudiana di Un petto di donna, che per altro – a testimonianza di un interesse mai dismesso – si giova di allegazioni dai due diari, Rien va e Des mois, che quindi mostrano di essere stati adeguatamente scandagliati dal recensore.
Forse più interessante, se non altro in quanto mai raccolta in volume, è la recensione – riproposta in coda a questo contributo – alla scialba silloge postuma di scritti ripresi dal “Corriere della Sera”, Il gioco della torre. L’oggetto è discutibile, e Sanguineti lo discute, eccome. La prima colonna, delle due ospitate dalla terza pagina dell’oggi defunto quotidiano genovese “Il Lavoro”, è una puntigliosa rilevazione delle mende sul piano filologico dello sgangherato libretto anonimamente raffazzonato presso Rizzoli nel 1987. Ma da uno specimen oggettivamente non irresistibile della scrittura landolfiana, Sanguineti trae un’altra definizione compendiosa che, se riprende tesi già espresse nel profilo di un quarto di secolo prima, lascia un ulteriore felice segno di icasticità. La parola-chiave qui è «svogliamento», ennesima riproposizione dell’inerzia e dell’acedia, la cui descrizione in termini di breve enumerazione caotica «parifica il migliore kitsch e i miti supremi», sicché esso svogliamento, «come indice di una perpetua insufficienza [altro lemma-chiave del vocabolario landolfiano], d’una inadeguatezza radicale dell’esistere, dilaga come un’ossessiva nevrosi morale, anzi, nei casi supremi di psicosi metafisica, protetta e sorvegliata da un’ironia coatta, degradante e disperante» (25). Segue una raffinata – e inedita – analisi stilistica del lessico landolfiano e delle sue armoniche intertestuali, con la denuncia dell’iperletterarietà sempre più parossistica e dei suoi continui inciampi, in un «gioco atroce» che non ha potenzialmente fine.
Di lì a poco Sanguineti tornerà sul primo e medio Landolfi, non rinunciando alle ulteriori acquisizioni scovate per via. Intanto con l’articolo per “Gradiva”, in cui si compie l’operazione di confronto intertestuale tra Nuove rivelazioni sulla psiche umana. L’uomo di Mannheim (un racconto da La spada) e il suo (esplicitato dall’autore) ipotesto parodico, cioè le Nuove rivelazioni della psiche animale di William Mackenzie (Formiggini, Genova, 1914). La sapida ricognizione parola per parola offre il destro a importanti considerazioni finali, che consentono di ritornare su quel paradigma di pastiche di nessun testo in particolare affrontato nel profilo del 1962:
Rimane il fatto […] che la scrittura di Landolfi si costituisce non soltanto, come diceva Calvino, «fingendosi parodia d’un’altra scrittura», ma anche non fingendosi affatto, anzi realizzandosi frontalmente come tale. E per Landolfi, comunque, in principio è la parodia, uno «scherzo» in «parafrasi». Soltanto, è vero, non ogni volta Landolfi si è assunto l’onere di risparmiare ai critici una preoccupazione di questo genere, quale è quella della individuazione delle fonti, qui confessata, del resto, senza notabili effetti esegetici, per quanto mi risulta. […] Ma questo lavoro è indispensabile, se si vuole finalmente comprendere che, a scrivere le opere di Landolfi, e in primo luogo i suoi «piccoli trattati», non era impegnato soltanto Tommasino, in prima persona, ma, con responsabilità sovente non minori, quel «genio» incognito, e ancora inesplorato, che fu Onisammot, questo ghostwriter di «incontestabile valore», il crittogrammatico Iflodnal (26).
Il che, se è forse troppo nello spingere a ritenere che esistano troppi ipotesti reali dietro alle operazioni da pasticheur di Landolfi, spinge senz’altro nella giusta direzione quanto alla necessità critica di individuare i suoi frequentissimi doppi fondi intertestuali, le sue oneste mistificazioni che chiedono moltissimo all’enciclopedia del lettore, e senza l’intelligenza delle quali spesso la piena comprensione del senso della scrittura landolfiana è impossibile, o almeno indebolita. Scrivendo infine, nel 1989, della BIERE, Sanguineti si rinsalda senz’altro ai suoi esordi di landolfista: saldando in particolare il tema dell’accidia – e puntuale arriva il ricordo del Landolfo – con un suo tema critico più recente, e cioè la già ricordata mitologia dell’inetto. Ancor più di allora, e definitivamente, la BIERE viene qualificata come il vero punto di svolta tra un primo e un secondo Landolfi, che rende «evidente quella sorta di iato, sino allora latente, e poi immedicato e immedicabile, che veniva a porsi tra un diarismo dominato dalla musa di una compiaciuta autodenigrazione e le compensazioni fantastiche, ancorché costantemente coerenti tonalmente e psichicamente, del fabulatore di ‘racconti surreali’»27. Ne riesce un’opera che – se non è allineata con i risultati più avanzati del nouveau roman (e anzi – e forse reattivamente – Landolfi avrà presto a cantarle contro Beckett e contro Robbe-Grillet) – certamente risulta antiromanzesca e in implicita polemica con il romanzo ben fatto. Così, Sanguineti osserva come – a dispetto dei primi tentativi masochistici di autoriduzione stilistica – si realizzi una complessità sempre manieristica della lingua e anche della struttura narrativa quasi autofinzionale. Ma ben diversa era per Landolfi la dialettica tra invenzione e realtà biografica, rispetto ai casi odierni – essendo la confusione degli enti e degli eventi nel diario sempre fondamentalmente una risorsa di opacità e mistificazione manieristiche. Talché, insomma, a essere al centro è sempre l’acedia, ripugnanza alla vita e alla realtà – che si incarna
in questo come in tanti altri testi, mediante quell’incubo teriomorfico, a grandissima tensione simbolica, che nella famosa idiosincrasia tematica verso la «carne ragnesca» trova il chiaro culmine nevrotico. È l’«accidia» medesima che metamorfosa infine lo scrittore in «questa specie di ragno» in cui si riconosce, nella BIERE più scopertamente che mai. «Giacché ragno mi sento sovente, e non starò a dire con quanta ripugnanza». È accidia ragnesca, appunto, quella «bestia sconosciuta» che si ridesta nel personaggio che dice io, nell’ora delle sue «smanie» e dei suoi «languori», bestia non «furiosa», anzi «lenta e viscida», che gli impone il suo «attonimento», e la sua «impartecipazione», e la sua «incomprensione della realtà circostante», e vale come «letterale immagine» della sua malattia (28).
Insomma, e un ulteriore stiramento della citazione lo confermerebbe a forza, si sta parlando di una nevrosi, o di uno stato depressivo, ma comunque di una forma di esistenza in cui lo psichico esita continuamente nel somatico. La diagnosi che ne trae Sanguineti – e qui davvero l’ultimo pezzo si riallaccia ai primi, e in particolare al finale del profilo Marzorati – è di ordine non tanto individuale-esistenziale, ma politico-sociale, né da lui ci aspetteremmo un diverso explicit, perché questo libro fa sprofondare anche il lettore nella botola dell’inazione, dell’acedia:
E qui sarà possibile cogliere perfettamente […] la vera malattia morale di un tipo umano che ha pure dominato la nostra «moitié-du-siècle» borghese, sotto altro nome sovente, e cioè sotto falso nome, ma implacabilmente comunque. Da questa, in ogni caso, il nostro secolo borghese, mentre pure già muore, non sembra essere guarito ancora. Landolfi, ignavo dinanzi a qualsiasi terapia, ci soccorre, almeno, a una diagnosi attendibile. (29)
Ove a Landolfi se non altro, nella sua qualità di schietto maestro del finto, è riconosciuto l’onore delle armi di una mistificazione onesta, se non addirittura virtuosa.
NOTE
1 Per tutto ciò si veda il prezioso volume Scuole segrete. Il Novecento italiano e Tommaso Landolfi, a cura di A. Cortellessa, Aragno, Milano 2009, e in particolare l’Introduzione di Cortellessa (Per dar fine all’esilio, alle VII-XLII), a cui rimando una volta per tutte.
2 Questo l’elenco dei contributi di Sanguineti specificamente dedicati a Landolfi: rec. a a Tommaso Landolfi, Landolfo VI di Benevento, “il verri”, 3, 5 (ottobre 1959), 86-88 (leggibile ora in Scuole segrete. Il Novecento italiano e Tommaso Landolfi, cit., 47-49 – da cui si cita, e qui 308-312); Tommaso Landolfi, in Letteratura Italiana I contemporanei, Milano, Marzorati, 1963, vol. II, 1527-1539 (poi, con il titolo Landolfi e la mistificazione virtuosa, in Novecento, Vol. X, a cura di Gianni Grana, Marzorati, Milano 1979, quindi in E. Sanguineti, Cultura e realtà, a cura di E. Risso, Feltrinelli, Milano 2010, 151-162, da cui si cita); Nomi e destini, “Paese sera libri”, 20 marzo 1975, poi in E. Sanguineti, Giornalino 1973-1975, Einaudi, Torino, 1975, 142-145; Ma poi, Landolfi, che cos’è un seno?, “Il Giorno”, 17 aprile 1975, poi – con il titolo Un seno a caso – in Sanguineti, Giornalino 1973- 1975, cit., 154-157; rec. a Il gioco della torre (nella rubrica Scribilli), “Il Lavoro”, 28 febbraio 1987; Le rivelazioni di Onisammot Iflodnal, “Gradiva”, III, 4, 1989, 22-26 (numero monografico a cura di Luigi Fontanella: Landolfiana. Omaggio a Tommaso Landolfi), poi in E. Sanguineti, Il chierico organico. Scritture e intellettuali, a cura di E. Risso, Feltrinelli, Milano 2000, 241-245 (da cui si cita); La bara dell’accidioso, pref. a Tommaso Landolfi, LA BIERE DU PECHEUR, a cura di I. Landolfi, Rizzoli, Milano 1990, 5-16, poi in Sanguineti, Il chierico organico, cit., 246-251 (da cui si cita).
3 Si veda almeno Esame di coscienza di un lettore del Manzoni (1985), in E. Sanguineti, Il chierico organico, cit., 138-156. E si legga questo luogo saliente: «C’era una volta un poeta, poeta ossessivamente monomaniaco, di una sua morte inventata, che sta tutto in pochissime pagine, anzi in pochissimi versi, ma di una qualità e di una intensità assolutamente mostruose» (ivi, 146).
4 E. Sanguineti, Landolfi e la mistificazione virtuosa, cit., 152.
5 Ivi, 153.
6 Ibidem.
7 Ibidem.
8 Ivi, 154.
9 Ibidem.
10 Ivi, 155.
11 Ibidem.
12 Ibidem.
13 G. Debenedetti, Il “rouge et noir” di Landolfi, in Intermezzo [1963], ora in Saggi, progetto editoriale e saggio introduttivo di A. Berardinelli, Mondadori, Milano 1999, 1218.
14 E. Sanguineti, Landolfi e la mistificazione virtuosa, cit., 156.
15 Ibidem.
16 Ivi, 157
17 Ibidem.
18 Ivi, 158.
19 Ibidem.
20 Ivi, 160.
21 Ivi, 161.
22 Ivi, 162.
23 Ibidem. Quanto alla mitologia dell’inetto, si vorrà almeno ricordare l’intervento di Sanguineti al convegno genovese in occasione del centenario montaliano del 1996, intitolato appunto Montale e la mitologia dell’“inetto” (ora in Sanguineti, Il chierico organico, cit., 227-240), da cui togliamo soltanto questo sintetico résumé: «Ogni ritratto dell’artista moderno sarà destinato a oscillare, senza tregua, e senza fine, tra sublimità regale e saltibanchesca vergogna, tra l’uomo di lusso e l’impotente a vivere, e anzi, infine, tra un vivere inimitabile e la maledizione di esistere» (229). Con la complicazione che Landolfi, diversamente da Svevo o Montale, non nasce borghese: non si inventa una tradizione, ma vive nella nostalgia di un lignaggio, biografico e letterario, che coincide con un buco esistenziale. C’è in lui come un terzo polo anacronisticamente aristocratico tra squallore della vita borghese e sublime decadente.
24 A tale proposito, rinvio al mio La lingua-pelle di Tommaso Landolfi, Le Lettere, Firenze 2013: specie al capitolo secondo, su Rien va.
25 Rec. a Il gioco della torre, cit.
26 E. Sanguineti, Le rivelazioni di Onisammot Iflodnal, cit., 245.
27 E. Sanguineti, La bara dell’accidioso, 247.
28 Ivi, 251.
29 Ibidem.