Da G. Sandrini, “Le avventure della luna. Leopardi, Calvino e il fantastico italiano”

 
Nel brano proposto, Giuseppe Sandrini getta luce su due percorsi letterari e intellettuali apparentemente distanti l’uno dall’altro, scoprendoli paralleli: quelli di Giacomo Leopardi e di Tommaso Landolfi. Riprendendo e ampliando l’intuizione espressa da Italo Calvino nella lettura critica che accompagna Le più belle pagine di Tommaso Landolfi, Sandrini non ripiega però verso una analisi di singole tematiche comuni ai due autori, o verso meri riscontri biografici, scegliendo piuttosto la via dell’indagine filosofica; in particolare, il punto nevralgico in cui la speculazione leopardiana e quella landolfiana parrebbero convergere riguarda l’indagine sulla natura profonda del linguaggio, che per ambo gli autori conserva una larvata, eppure grandiosa porzione di inesprimibilità. Il Landolfi inventore di linguaggi ‘personali’, così come il Leopardi che riconosce, dialetticamente tra le pagine dello Zibaldone e figurativamente nei Canti, l’impossibilità di uscire dalla dimensione linguistica (e dunque gnoseologica) di un diuturno “forse” sembrano affermare, certamente in epoche diverse e con modalità non sovrapponibili, un’analoga tensione a sciogliere la contraddittoria natura dell’espressione linguistica, perennemente tesa tra la necessità di rispecchiare la realtà e la volontà di tradurre quest’ultima in pensiero poetico.

Daniele Visentini

 

 

“Landolfi: una filosofia leopardiana”, da “Le avventure della luna. Leopardi, Calvino e il fantastico italiano” (Marsilio, 2015)

di GIUSEPPE SANDRINI
 

1. «È di gran lunga preferibile scrivere in una lingua imperfettamente conosciuta, anziché in una che ci sia compiutamente familiare», spiega l’amico Y, autore di versi in un idioma inesistente, al narratore del Dialogo dei massimi sistemi. Nel racconto che dà il titolo al suo primo libro, pubblicato nel 1937, Landolfi svolge in maniera paradossale un tema di ascendenza leopardiana: i poeti antichi, si legge infatti nello Zibaldone, «descrivendo con pochi colpi, e mostrando poche parti dell’oggetto, lasciavano l’immaginazione errare nel vago e indeterminato di quelle idee fanciullesche, che nascono dall’ignoranza dell’intiero»(1).
Il «vago» leopardiano, in questo Landolfi d’esordio che, narrando, enuncia subito la sua poetica, si amplia fino al mistero: a un mistero però non soprannaturale, anzi tutto radicato nelle aporie della ragione. L’amico Y, omericamente convinto che la poesia si avvantaggi quando è costretta a supplire alla precisione terminologica «con perifrasi, e cioè di’ pure con immagini», si fa insegnare il persiano («tanto da esprimermi ma non tanto da chiamar sempre le cose col loro nome») da uno sconosciuto capitano inglese incontrato in trattoria; senonché, dopo essersi procurato il testo originale delle opere di un vero poeta persiano (perché «a leggere un poeta non c’è mai pericolo di imparare una lingua troppo bene») scopre di aver appreso un idioma che non esiste.
Ecco quindi il caso limite della conoscenza imperfetta applicata alla poesia: i versi che nel frattempo Y ha scritto toccano il sommo grado del «vago», perché nessuno (tranne, a malapena, l’autore) ne può intendere il significato. Questo «problema estetico spaventosamente originale» viene portato da Y e dall’amico narrante sulla scrivania di un «grande critico», figura gustosamente parodica che, con tutte le sue impeccabili divagazioni sul tema dell’arte come «unica misura a se stessa», non è in grado di affrontare il cuore della questione: quei suoni apparentemente senza senso – per quanto Y ne dia una traduzione a braccio – restano impossibili da giudicare, avvolti nella loro aura sublime e vuota.
Secondo Calvino, che inserisce il racconto nella sezione «Le parole e lo scrivere» della sua antologia, Landolfi imposta sempre la narrazione «su una scrittura che solo fingendosi parodia d’un’altra scrittura (non d’un autore particolare, ma come d’un autore immaginario che tutti abbiamo l’illusione d’aver letto una volta) riesca a esser diretta e spontanea e fedele a se stessa»(2). In questo caso l’autore può avere un nome, perché il titolo Dialogo dei massimi sistemi rimanda all’opera di Galileo, e l’articolazione della disputa in tre personaggi (Y, l’amico e il critico come Sagredo, Salviati e Simplicio) fa pensare che qui sia posta in gioco una sorta di rivoluzione copernicana dell’estetica (dalle certezze della tradizione e della retorica classica alla vertigine paradossale della poesia moderna, basata sul fascino dell’ignoto). Ma forse, dietro il modello evidente, ce n’è un altro più remoto e inconoscibile come il fantomatico persiano di Y: Landolfi, dice Montale, «quando scriveva in proprio non faceva altro che tradursi, tenendo nascosto in sé l’originale»(3).
A una scrittura che si finga «parodia d’un’altra scrittura», si noterà, ricorre anche Leopardi in alcune delle Operette morali. Ma Landolfi porta alle estreme conseguenze questo procedimento narrativo, inserendo nel racconto una poesia in una lingua immaginaria, e investendo alla fine i fondamenti stessi della logica: come può un’opera d’arte, secondo l’affermazione che il «grande critico» è costretto a riconoscere valida, «essere tale anche se competente a giudicarne non sia che una sola persona al mondo e precisamente il suo autore»? Eppure succede proprio così nel Dialogo dei massimi sistemi: l’amico Y, dileguatosi il capitano inglese, è il solo a conoscere la lingua in cui ha scritto; la sua condizione è l’emblema paradossale della condizione di ogni poeta, sospeso – per riprendere i termini della linguistica strutturale suggeriti dallo stesso Calvino – tra l’unicità della sua parole e l’orizzonte (qui sfuocato fino all’inesistenza, perché il persiano è una pura invenzione) della langue alla quale deve far riferimento. È, anche, il destino di ogni individuo, anima unica e irripetibile ma alle prese con gli ingranaggi della vita, di cui Y sperimenta la prosaicità quando, nel finale comico ma «triste» della storia, viene messo alla porta da tutte le redazioni alle quali si ostina a proporre «delle strane poesie senza capo né coda».
Siamo al centro di quella che lo stesso Calvino chiama «filosofia» di Landolfi, invitando a estrarla «dal bozzolo d’interrogazioni senza risposta, contraddizioni, declamazioni, provocazioni che l’avvolge»; è significativo che il curatore dell’antologia, pubblicata tre anni dopo la morte dello scrittore (1979), proponga il suo lavoro come un «primo passo», necessario per avvicinare i lettori a un’opera ritenuta «per pochi», ma costretto per adesso a rimanere «in superficie»:

Ed è solo in superficie che documentiamo il suo gusto per i finti “trattati”, le finte “conferenze”, le finte “operette morali”, ma senza escludere che un giorno si possa stabilire che erano finte fino a un certo punto, e che un filo che lega Leopardi a Landolfi esiste, tra i due borghi selvaggi e i due paterni ostelli e le due giovinezze spese sulle sudate carte e le due invettive contro le umane sorti all’apparir del vero.

L’impressione è che Calvino riconosca a Landolfi il diritto di primogenitura nell’arduo confronto con l’esperienza leopardiana ma che, come spesso gli accade, si arresti di fronte a una soglia che sente di non potere o dovere oltrepassare. Nell’antologia, in effetti, prova a smontare e a ricomporre in sezioni tematicamente coerenti le varie raccolte di racconti, seguendo un’ambizione architettonica che è tipicamente sua (si pensi al continuo riassemblaggio delle cosmicomiche); ma gli sfugge, e lo riconosce, il vero centro della narrativa landolfiana, quel «mondo pieno, concreto, denso di significati» che sta dietro la «maschera».
Vale la pena, allora, di riprendere il filo dall’inizio, fermandoci un po’ sull’idea che la conoscenza debba essere limitata – non solo a proposito delle lingue – da una certa dose di imperfezione. Se nella letteratura, come Landolfi scrive in un articolo per «Il Mondo» del 1954, l’«errore è dimensione insopprimibile, né si dà opera importante che non abbia un certo margine d’errore, d’insufficienza, d’impotenza»(4), anche nella vita, secondo una nota di Rien va (il diario dal titolo emblematico tenuto tra il 1958 e il 1960 e pubblicato nel 1963), «un agognamento è sempre più forte di un amore soddisfatto»(5). Le cose «in atto», ragiona il protagonista di Ottavio di Saint-Vincent (in volume nel 1958), «perduto il poetico alone del forse, ti aggrediscono e scuorano con tutta la brutalità e d’altra parte l’uggiosa inconsistenza del reale»; perché «Quando una cosa è avvenuta […] non può necessariamente più avvenire (le ripetizioni non contano) e, per dir così, non si aspetta più nulla»(6).
La radice filosofica di un simile atteggiamento è leopardiana: l’espressione «poetico alone del forse» si può ricondurre a una nota dei Canti (tale, credo, da non sfuggire a un lettore acuto come Landolfi) in cui, a proposito dei versi di Ad Angelo Mai sul «notturno / occulto sonno del maggior pianeta», viene ricordato il forse «sommamente poetico» della canzone L di Petrarca («Ne la stagion che ‘l ciel rapido inchina / verso occidente, e che ‘l dì nostro vola / a gente che di là forse l’aspetta»), che «dava facoltà al lettore di rappresentarsi quella gente sconosciuta a suo modo, o di averla in tutto per favolosa». Ottavio, «l’impostore» che gioca la propria persona in una pirandelliana commedia dei travestimenti, si lascia coinvolgere «nella sfera dei possibili» offertagli da un singolare caso della vita (e qui si capisce, anche, perché Landolfi sia tanto importante per il Calvino narratore combinatorio), ma ritorna presto il poeta povero e vagabondo che era all’inizio.

 

2. L’«ignoranza dell’intiero» che il giovane Leopardi poneva come principio di un’estetica, e di una filosofia, nutrita del sentimento ritrovato della vita antica, diventa l’ottica insieme privilegiata e infelice del letterato moderno, impossibilitato a trovare un ruolo nella società che lo circonda: di qui la necessità paradossale di costruire una parole senza poter contare su una langue, a meno di non inventarla di sana pianta. Utopia che, in origine, era balenata davanti al nostro scrittore, come sappiamo dalla pagina che apre Des mois, l’altro diario che Landolfi tenne tra il 1963 e il 1964 e pubblicò nel 1967:

Quando ero ragazzo, volli una volta foggiarmi una lingua personale: mi pareva necessario cominciare di lì; una lingua vera e propria, con tutte le sue regole. Ma intesi bene che per ciò dovevo rifarmi da ancor più lontano, ossia inventare in primo luogo un paese, un popolo, una sua storia e così via, la lingua essendo il supremo fiore anzi il frutto di una civiltà; empii fogli e fogli, che ogni tanto ritrovo. E forse questo mi si configurò nel capo come la ricerca di un’altra cosa(7).

È, a ben vedere, la stessa situazione in cui si trova il protagonista del primo romanzo di Landolfi, La pietra lunare (a stampa nel 1939), di fronte al perduto mondo folclorico del paese natale («P.» sta evidentemente per Pico Farnese, patria dell’autore). L’avventura di Giovancarlo, studente universitario rientrato per l’estate in famiglia, è il contraltare fantastico, o figurativo, della questione logica esposta nel Dialogo dei massimi sistemi: la sua esperienza, o il suo sogno, della dimensione “altra” della montagna comporta la reinvenzione di una mitologia, il ritorno, in forme irrazionali e “magiche”, della natura.
Stavolta Landolfi ci offre una traccia non solo esplicita ma clamorosa, dotando La pietra lunare di un’Appendice che porta l’impossibile titolo Dal giudizio del Signor Giacomo Leopardi sulla presente opera(8). Si tratta di un collage dalle pagine 4-20 dello Zibaldone, i cui tasselli, riportati in un nuovo ordine, vengono a esprimere una dissimulata – formulata, com’è, con parole altrui – dichiarazione di poetica. In primo piano c’è naturalmente il confronto con gli antichi, perché Leopardi, a partire dalla p. 15 del suo diario-laboratorio, mette giù gli argomenti per il Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica (1818).
L’attacco («Adesso l’arte è venuta in un incredibile accrescimento, tutto è arte e poi arte, non c’è quasi più niente di spontaneo, la stessa spontaneità si cerca a tutto potere, ma con uno studio infinito», Zibaldone, p. 4) porta subito in campo la condizione dell’artista moderno; non a caso proprio questo passo apriva già una delle piccole antologie di pensieri pubblicate da «La Ronda» col titolo Convitati di pietra(9). Il problema, secondo Leopardi, è che, essendo venuta meno «quella negligente e sicura e non curante e dirò pure ignorante franchezza» che possedevano gli antichi, i moderni sono impacciati dalla paura di ripetere gli errori «di molti che per certa libertà di pensare e di comporre partoriscono mostri, come sono al presente, per esempio, i romantici» (p. 10). La dura diagnosi è che «S’è perduto il linguaggio della natura, e questo sentimentale non è altro che l’invecchiamento dell’animo nostro»: dove «sentimentale» (e qui, p. 17, è già iniziata la discussione a distanza col Breme) indica l’arte «psicologica», analitica, dei moderni, che «distrugge l’illusione senza cui non ci sarà poesia in sempiterno».
Siamo dunque presi, come nel Dialogo dei massimi sistemi, in una contraddizione che non lascia scampo: abbiamo bisogno di «uno studio infinito» per parere spontanei, eppure «la tropp’arte nuoce a noi» (p. 8); rimpiangiamo la natura ma, se non l’avviciniamo con cautela, rischiamo di partorire «mostri» (parola ben significativa, alla fine di un romanzo fantastico e misterico come La pietra lunare). Landolfi sa di essere in bilico tra le esigenze imperiose di un’arte disciplinata dalla ragione e l’antichità innata di «quella puerizia in cui tutto è singolare e meraviglioso, in cui l’immaginazione par che non abbia confini» (p. 17); tra la consapevolezza che il «senno» e l’«esperienza» sono «la morte della poesia», come suona la conclusione dell’Appendice (tratta dalla p. 5 dello Zibaldone) e il moto d’affetto che lo spinge, poche righe prima, a ricalcare il corsivo di Leopardi, ribadendo che un «palpito» è ancora possibile nell’animo umano, «perché il cuor nostro non è cangiato, ma la mente sola» (la citazione è presa, di nuovo, da p. 17).
Nel singolare autocommento per interposta persona col quale Landolfi sigilla il suo primo romanzo è certo presente anche la sulfurea volontà di gioco e di paradosso che caratterizza molti dei suoi racconti(10); ma se la mente può vivere di artificio, il cuore no: altrimenti non si spiegherebbe, in un narratore tanto amante dell’ironia e della finzione, la vera e propria iniziazione mitica vissuta dal protagonista della Pietra lunare. E qui conta davvero quella simbiosi forte con il romanticismo – non italiano, s’intende – che già l’epigrafe tratta da «Die Lehr. auf Sais» suggerisce, incorniciando il libro tra le parole di Novalis e quelle di Leopardi; ma l’originale esperimento fantastico del giovane Landolfi merita una trattazione a parte, alla quale sarà dedicato il capitolo seguente.
Bisogna comunque anticipare che il tentativo è votato all’insuccesso: alla fine del romanzo Gurù, la ragazza che incarna l’altro mondo sognato da Giovancarlo, sparisce «dietro lo sporco vetro d’uno sportello» della corriera che riporta il protagonista in città. Allo stesso modo, quasi trent’anni dopo, la citata pagina di Des mois sul sogno di foggiarsi una lingua propria si chiude riconoscendo che «È impossibile inventare qualcosa di diverso, non intendo da ciò che è già stato, ma da ciò che è sempre stato, come è impossibile inventare un gioco nuovo». Quelli di «chi cerca nuovi linguaggi» sono «ameni tentativi», secondo Landolfi, proprio come «è una chimera», secondo la riflessione dello Zibaldone (p. 936, aprile 1821) «il progetto di una lingua universale».
E dunque al maturo diarista di Des mois tocca concludere che al mondo «non c’è nulla da fare, bisognerà prima o poi convenirne; vivere non si può se non simulando, se non fingendosi uno scopo qualsiasi»(11): dove pare ripreso, di nuovo, un motivo di Leopardi, secondo il quale «in questa parte dell’universo non possiamo vivere se non quanto crediamo e ponghiamo studio a cose da nulla»(12). È la necessità della «distrazione», unico sollievo della vita, sulla quale lo Zibaldone insiste più volte, fino alla nota del 13 luglio 1826 (p. 4187) cui già si è accennato nel primo capitolo, a confronto con la distraction auspicata dal surrealismo.
Non sorprende, a questo punto, che Landolfi non solo intenda l’espressione letteraria e la meditazione filosofica come attività strettamente connesse, ma anzi rivendichi, e proprio nel caso esemplare di Leopardi, la dignità di pensiero del poeta. È il giovane che ha da poco pubblicato La pietra lunare che il 17 febbraio 1940, recensendo sul settimanale «Oggi» La filosofia di Leopardi di Adriano Tilgher, rende un nuovo omaggio, stavolta critico, all’autore dei Canti:

Il pessimismo leopardiano è evidentemente innanzi tutto un dato sentimentale, ossia a suo modo una professione di fede (tale è d’altronde all’origine ogni dottrina); ma esso, ampiamente articolandosi, affrontando liberalmente i maggiori problemi, prende coscienza di sé in maniera compiuta, cerca e trova una giustificazione razionale, si condiziona nella storia del pensiero, si conchiude in sistema. Leopardi, infine, non poeta soltanto, ma specula nel senso proprio dell’espressione; Leopardi è anche, e magari soprattutto, un filosofo. La sua opera non è dunque la tesimonianza di tendenze irriflesse, l’esalazione di sentimenti incontrollabili per quanto tipici; ma, nelle sue precise formulazioni, nella sistemazione sicura delle sue premesse, mostra una chiara volontà costruttiva e in concreto una vigorosa intelaiatura di pensiero dalla quale mal si potrebbe prescindere. Giacché, aggiungeremo, questa esperienza speculativa di Leopardi essendo strettamente fusa colla artistica o letteraria, cui presta il suo organamento e le sue inflessioni, chi voglia della seconda rendersi esatto conto ed apprezzare in tutto le vaghezze, deve alla prima continuamente e necessariamente rifarsi(13).

 

3. L’ideale dibattito con Leopardi ricorre anche in Rien va, dove lo scrittore, sulla soglia dei cinquant’anni, fa i conti con il proprio scacco esistenziale (benché la recente paternità gli porti, a tratti, la linfa più fresca che scorre in queste pagine di diario). Qui Landolfi annota che «la storia dello spirito è storia involutiva, come quella della razza umana rispetto alla storia naturale», aggiungendo poco dopo, tra parentesi: «È strano anche che Leopardi ed io finiamo coll’essere partigiani dello spirito, quando siamo convinti che esso sia solo un ripiego»(14). Il riferimento è forse al luogo dello Zibaldone (p. 3936, 28 novembre 1823) in cui si legge che «La natura non è vita, ma esistenza, e a questa tende, non a quella. Perocché ella è materia, non spirito, o la materia in essa prevale e dee prevalere allo spirito» (il discorso leopardiano presuppone che «La vita è il sentimento dell’esistenza», p. 3923).
Il dubbio fondamentale sulla scelta della vita dello spirito conduce Landolfi a ipotizzare – con paradosso davvero estremo – che l’esistenza sia «una condanna senza appello e senza riscatto», che il nulla, inteso come «stato altro dall’esistere», sia «esso stesso illusorio» (è il passo quasi gridato che Calvino riporta alla fine della sua postfazione: «Forse, mio Dio, tutto esiste, è esistito, esisterà in eterno»). Più avanti, un’altra nota del diario precisa che lo stesso termine «nulla» è equivoco, in quanto «contrappositivo»; al nulla come «sole nero», come «gran vuoto che cinga il nostro essere», lo scrittore vorrebbe sostituire un nulla al quale «non si torna» perché da esso «non si viene»: un nulla che avrebbe bisogno di essere chiamato con un nuovo nome, e per il quale non si trovano aggettivi se non «immemore», «sereno»(15).
Ma dato che l’esistenza «cieca, informe», è la sola realtà, non resta che vivere, «press’a poco come in un posto chiuso dove si sia soffocati dal fumo del tabacco non c’è di meglio che fumare», sentenzia Rien va. Vivere come? «A caso»(16), dice la protagonista di Mano rubata (uno dei Tre racconti del 1964). «Vivere a caso fu già affermato unico verso per vivere», ribadisce il racconto che dà il titolo, significativo, al volume A caso (1975): e qui il pensiero va al Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere («Una vita a caso, e non saperne altro avanti, come non si sa dell’anno nuovo?»), va allo Zibaldone («Bisogna vivere εἰκῇ, temere, au hasard, alla ventura», p. 2529, 30 giugno 1822); sebbene Landolfi aggiunga: «perché dunque, del pari ed anzi a maggior ragione (il meno essendo contenuto nel più), non scrivere a caso?»(17).
Se la vita è una partita col caso, anche lo scrittore (come del resto molti personaggi di Landolfi) è un giocatore, e la sua roulette preferita è il giro breve del racconto. Eppure nemmeno al concetto di caso si può «credere seriamente»; secondo l’implacabile analisi di Rien va, «qualcuno ha inventato il caso e tutti i pensanti lo hanno accettato […] E forse a inventarlo è stato un giocatore appunto o l’inventore stesso del gioco, che ben sapeva di non poterne in nessun modo fare a meno»(18).
Per Calvino, che commenta appassionatamente proprio questa  pagina, «caso e non-caso sono due nomi della morte, unico significato stabile al mondo»: il suo Landolfi, giocatore in letteratura come ai tavoli dei casinò, sta idealmente a fianco di Leopardi nella «contemplazione ironico-disperata» della «costellazione caso-caos-nulla-morte». Senonché – come lo stesso Calvino sottolinea – «anche il possibile nesso tra gioco d’azzardo e letteratura» è stato esplorato dallo scrittore.
Nel racconto La dea cieca o veggente (nel volume In società, 1962)(19), è ancora un poeta, di nome Ernesto, a esporre quest’altro paradosso estetico: «Un giorno la poesia avrà fine per la medesima ragione per cui è fatalmente destinato all’esaurimento il gioco degli scacchi», quando cioè tutte le possibili combinazioni (il cui numero è «limitato sebbene stragrande») saranno state sfruttate. Ernesto, con la medesima coerenza ingenua e luciferina di Y, decide quindi di comporre i suoi versi estraendo a sorte le parole. Un bel giorno dall’urna escono «sempre», «caro», «ermo» e «colle»: e il protagonista si affanna a metterle in fila nel modo migliore fino a ottenere, senza accorgersene, l’incipit dell’Infinito. Dopo altre estrazioni, accompagnate da disquisizioni stilistiche che costituiscono quasi un commento ai primi tre versi dell’idillio, il risultato di questa sorta di predestinata scrittura automatica è l’intera poesia di Leopardi, tale e quale. Il nuovo autore, riconosciuto finalmente il celeberrimo testo, consulta nell’ordine un critico letterario, un matematico e la propria fidanzata. Quest’ultima gli consiglia di ritentare: ma dall’urna crudele esce «Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono» e il povero Ernesto, stimandosi ormai capace di «polarizzare» il caso, finisce per diventare un assiduo, ma perdente, frequentatore di bische.
Lo stesso Landolfi, nella chiusa, si chiede quale sia la «morale», e lascia aperta la questione: «che cos’è questa, una storia di poesia, o di gioco, o un semplice giochetto intellettuale? Il lettore provi a raccapezzarcisi da sé». Raccogliendo la sfida, potremmo dire che La dea cieca o veggente è senza dubbio una spassosa parodia del surrealismo, come il Racconto dei massimi sistemi lo è dell’estetica crociana, ma non è soltanto questo; la vicenda di Ernesto adombra il “fatale” incontro del nostro scrittore con Leopardi(20), la sua consonanza di idee con colui che nel racconto è chiamato «un contino, un gobbetto» ma anche, poco dopo, il «signor Giacomo Leopardi», come nell’Appendice alla Pietra lunare.
Una conferma in tal senso ci viene dal Landolfi poeta, autore, negli ultimi anni della sua vita, di versi che riprendono spesso i Canti – insieme ad altri illustri modelli – con un gusto manieristico della citazione che a volte sembra quasi mirare allo sfregio degli originali (pur senza intenzioni avanguardistiche, perché, come insegna ancora La dea cieca o veggente, «è inutile che qualcuno si dia tanto da fare: la poesia ci pensa da sé a morire»). Tra le liriche di Viola di morte (1972) possiamo trovare così un rovesciamento del Canto notturno («Muore l’uomo a fatica / ed è rischio di nascita la morte»); ma anche un implicito omaggio a Leopardi, l’intrepido negatore, la cui figura sembra trasparire in filigrana dietro questi versi che Landolfi rivolge a se stesso(21):

 Cantasti un giorno la desolazione
del palazzotto avito e l’angoscia
del suo solitario abitatore:
e ti ritrovi a questa troscia
dopo tanta vita intercorsa!

Se per qualcosa vali,
certo è perché non t’ingannasti mai
sulle tue sorti mortali.

 

4. È giusto, allora, parlare di una «filosofia» di Landolfi, come vuole Calvino, stabilendo un «filo» con il modello di Leopardi? La domanda deve tener conto di due problemi che bisogna mettere a fuoco, prima di tentare una risposta. Il primo consiste proprio nel rischio di dar troppo credito all’antologia di Calvino, la cui la ripartizione in sezioni tematiche non sempre convince: a volte si ha l’impressione che, leggendo il suo autore, il curatore non possa fare a meno di pensare a se stesso; ed è ben comprensibile, se ricordiamo che Leopardi e Landolfi sono citati insieme nella presentazione delle prime cosmicomiche («Il Caffè», 1964).
Prendiamo, per esempio, Un concetto astruso (dai Racconti impossibili, 1966; il manoscritto è datato 1963), che nell’antologia è posto sotto la rubrica «Piccoli trattati». In una lontanissima galassia, un professore cerca di spiegare ai suoi alunni che cos’è – o cos’era – la morte per gli esseri umani; ma quando gli studenti concludono che «il fantasticato concetto di morte è il più assurdo e incomprensibile», il dialogo è interrotto dall’improvvisa «catastrofe cosmica» («l’intero universo visibile ardeva e sanguinava») narrata nel corsivo finale(22). La discussione tra gli «accaniti parlatori» extraterrestri fa pensare al piglio raziocinante dei racconti, pur non dialogici, di Ti con zero (1967), ai quali ancor meglio si attaglia la definizione di «piccoli trattati». È insomma un Landolfi che pare anticipare la stagione combinatoria di Calvino: impressione che si può avere anche leggendo certi racconti non accolti nell’antologia forse perché troppo “scoperti”, come Il calcolo delle probabilità (in rivista nel 1956, poi nel volume In società) nel quale un suicida, prima di impiccarsi a una trave, valuta le probabilità che questa regga al suo peso(23).
D’altra parte la scelta delle Più belle pagine (operazione che non ha mancato di suscitare critiche tra i più convinti estimatori di Landolfi)(24) si limita forzatamente ai racconti, distinti in «fantastici», «ossessivi», «dell’orrido», e ai pezzi brevi riuniti nelle sezioni «Tra autobiografia e invenzione», «L’amore e il nulla», «Piccoli trattati» e «Le parole e lo scrivere», dove trovano spazio anche alcuni elzeviri e tre passi da LA BIERE DU PECHEUR isolati, caso unico nell’antologia, dal loro contesto. E qui si apre il secondo problema: i capolavori del Landolfi fantastico sono – almeno a parere di chi scrive – quelli che Calvino chiama i «due romanzi maggiori», La pietra lunare e il Racconto d’autunno; ma non è facile inquadrare queste riuscite romanzesche nel profilo di un narratore per lo più incline a racconti allegorici e riflessivi, tali da poter essere etichettati come «finte “operette morali”». E lo stesso Calvino, che suggerisce tale etichetta, storce poi il naso davanti ai «dialoghi, che Landolfi scrisse in gran numero specie negli ultimi tempi», cioè proprio davanti ai testi che riprendono la forma più frequente nelle Operette morali.
Insomma, la partita tra Landolfi e Leopardi si gioca su due tavoli diversi, benché magari paralleli: l’avventura mitica della Pietra lunare, di cui lo Zibaldone viene chiamato a garante, ma che assume, distendendosi in narrazione romanzesca, una forma certo non leopardiana, e il racconto come «una specie di saggio o di dialogo morale»(25), che sfiora il modello delle Operette radicalizzandone, in genere, la carica paradossale, salvo poi dar luogo a quella «vena meno esigente» rimproverata da Calvino. Il cui giudizio è da affiancare a quello di Contini che, nella Postfazione 1988 alla sua Italia magica, definisce Landolfi «continuatore fecondo di se stesso in modalità poco variate», aggiungendo: «L’imprevedibilità della sua carriera futura, di cui si parlava nel 1946, si è mutata post factum in una prevedibilità onorevole ma leggermente delusiva»(26).
Landolfi sembra proporre, prima di Calvino, la medesima oscillazione tra conte fantastique e conte philosophique, ma con forbice molto più netta tra i due momenti (il primo dei quali, del resto, limitato a rare e giovanili, o pressoché giovanili occorrenze); solo che, mentre nel caso di Calvino è soprattutto lo scrittore maturo ad apprezzare e infine a scegliere la lezione di Leopardi, in Landolfi il rapporto con tale lezione è decisivo – su entrambi i versanti, come abbiamo visto – fin dall’esordio. Ha ragione, credo, Andrea Zanzotto a indicare nella Pietra lunare «una vera e propria irruzione di grazia»: davvero Landolfi «aveva quasi dall’inizio raggiunto la poesia, l’aveva “afferrata” nel modo più puro, immediato, violento, sotto forma veramente di dono»(27).
Andrà allora un po’ ridisegnato il ritratto critico più corrente, quello che proprio l’autore ha contribuito ad accreditare, con la sua maschera ironica di giocatore della scrittura, con quel continuo ricorso al pastiche che rende difficile, come osserva Montale, «un fiducioso abbandono alla sua pagina»(28). Del resto la stessa formula dell’“operettismo”, proposta da Gabriele Pedullà(29), non può fare a meno delle virgolette: segno che l’aderenza alla lezione leopardiana risulta inevitabilmente limitata, se cerchiamo di individuarla innanzitutto in un modello e in un procedimento formale. Ha ragione Calvino a chiedere più attenzione per la «filosofia» di Landolfi, per il suoi «significati»; purché sia chiaro che essi vanno cercati non in contrapposizione, ma in in conformità con l’esigenza fantastica, paradossale e in fondo umanissima della sua narrativa.
Stupisce, a questo proposito, che nell’antologia si trovino catalogati come «racconti dell’orrido», quasi a volerli circoscrivere a un effetto psicologico o di “genere”, L’eterna provincia e Un petto di donna, due testi che valgono, invece, come testimonianze esemplari di quella «pietà» che Landolfi, in una pagina di Rien va, riconosce tra i suoi temi («Tema della pietà, che serpeggia quasi o del tutto inavvertito in ogni mio scritto e che è infatti uno dei miei fondamentali, benché mai affrontato francamente»)(30) e che Montale, nella già ricordata recensione, definisce «una profonda e umile comprensione della precarietà della vita».
È vero che, fin dalle prime prove, Landolfi risente di un’immaginazione assai più “buia” di quella di Calvino (tanto che la postfazione a Le più belle pagine inizia ricordando non solo la sua discendenza letteraria dai «maestri del romanticismo “nero”», ma anche la «fama d’impraticabilità e di stranezza che caratterizzò il suo personaggio»). Ma, verrebbe da aggiungere, «il gusto del racconto a effetto» sottolineato da Calvino non impedisce che la narrativa di Landolfi si apra anche a vicende profondamente “terrestri”, intrise cioè, dietro il velo dell’ironia, dei sensi della vita, come l’amore, o almeno la pietà, tra l’uomo e la donna.
 

 

NOTE

(1) Zibaldone, p. 100 (8 gennaio 1820). Il Dialogo dei massimi sistemi, uno dei primi racconti del giovane Landolfi, apparso su «L’Italia letteraria» il 13 aprile 1935 ed entrato due anni dopo nell’omonimo volume della collezione di «Letteratura» dei fiorentini fratelli Parenti, si legge in Opere, vol. I, pp. 43-55.
(2) I. Calvino, L’esattezza e il caso, postfazione a Le più belle pagine di Tommaso Landolfi, Milano, Rizzoli, 1982 (in Saggi, I, pp. 1099-1113).
(3) E. Montale, Rien va, «Corriere della sera», 20 giugno 1963 (in Id., Il secondo mestiere. Prose 1920-1979, a cura di G. Zampa, Milano, Mondadori, 1996, II, pp. 2586-2590). Il confronto con i tre personaggi del Dialogo galileiano è avanzato da A. Dolfi, Tommaso Landolfi: «ars combinatoria», paradosso e poesia, in Una giornata per Landolfi, atti del convegno, a cura di S. Romagnoli, Firenze, Vallecchi, 1981, p. 194.
(4) T. Landolfi, Perfezione e viltà (recensione a Bonjour tristesse di Françoise Sagan) in Id., Gogol’ a Roma, Milano, Adelphi, 2002, pp. 156-157.
(5) Opere, vol. II, pp. 294-295.
(6) Opere, vol. I, p. 871; il passo è discusso da L. Fontanella, Tommaso Landolfi e il gioco, in Id., La parola aleatoria. Avanguardia e sperimentalismo nel Novecento italiano, Firenze, Le Lettere, 1992, p. 162.
(7) Opere, vol. II, p. 681.
(8) Opere, vol. I, pp. 199-201. La data di composizione della Pietra lunare, il 1937, è riportata alla fine del romanzo, pubblicato da Vallecchi nel 1939.
(9) «La Ronda», n. 2, 1920, p. 87. Landolfi dal canto suo (come informa M. Verdenelli, Prove di voce: Tommaso Landolfi, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1997, p. 115) aveva a mano l’edizione dello Zibaldone scelto e annotato, a cura di G. De Robertis, Firenze, Le Monnier, 1922, 2 voll.
(10) A. Dolfi (Tommaso Landolfi: «ars combinatoria», paradosso e poesia, cit., pp. 169-173) legge l’Appendice come un’autoironica stroncatura del romanzo; non mi sembra però che la tesi leopardiana sia rovesciata, nonostante le frasi anche significative omesse da Landolfi. Una fine analisi del montaggio dallo Zibaldone è condotta da B. Stasi, Leopardi e l’assiuolo. Note in margine al classicismo landolfiano, «Intersezioni», XVII, n. 2, agosto 1997, pp. 301-313.
(11) Opere, vol. II, p. 739. (vedi lo Zibaldone, 4043 e 4075, dove è evidente il fondo pessimistico della «distrazione» come sollievo della vita).
(12) Così dice la Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto vicini a morte, composta nel 1822 e premessa al Bruto minore nell’edizione bolognese delle Canzoni, 1824 (testo in Tutte le opere, p. 209).
(13) T. Landolfi, Studi leopardiani, «Oggi», 17 febbraio 1940, p. 20; gli articoli letterari scritti tra il ’39 e il ’40 per il rotocalco Rizzoli diretto da Benedetti e Pannunzio non sono stati finora raccolti in volume. È interessante notare che il libro di Tilgher (Roma, Edizioni di Religio, 1940), del quale la recensione di Landolfi – breve, per la verità, e infatti siglata con le sole iniziali – dà un giudizio molto positivo, dedica un intero paragrafo, il XIII, al concetto di «distrazione».
(14) Opere, vol. II, pp. 257-258. L’affermazione è subito seguita da una postilla dissimulatoria: «E par quasi io conosca Leopardi o la sua opera, come deve aver affermato un recensore buontempone».
(15) Opere, vol. II, p. 321 e 330. Basterebbe questa pagina di interrogazione sul nulla a smentire l’etichetta di «ottocentista eccentrico in ritardo» coniata per Landolfi da Gianfranco Contini (Letteratura dell’Italia unita: 1861-1968, Firenze, Sansoni, 1968, p. 931). È interessante il confronto, alla stessa altezza cronologica, con il ben diverso giudizio di Geno Pampaloni: «Rien va (1963) e Des mois (1967) segnano il momento leopardiano dello scrittore, sinora forse il più alto» (Storia della letteratura italiana, direttori E. Cecchi e N. Sapegno, vol. IX, Il Novecento, Milano, Garzanti, 1969, p. 806).
(16) Opere, vol. II, p. 471.
(17) T. Landolfi, A caso, Milano, Rizzoli, 1975, p. 23. «Non potrò dunque mai scrivere veramente a caso e senza disegno, sì da almeno sbirciare, traverso il subbuglio e il disordine, il fondo di me?», era il problema posto già, nel 1953, da LA BIERE DU PECHEUR (Opere, vol. I, p. 575).
(18) Opere, vol. II, p. 273.
(19) Opere, vol. II, p. 179-191. Il racconto è collocato da Calvino subito dopo il Dialogo dei massimi sistemi, nella medesima sezione «Le parole e lo scrivere».
(20) La situazione è comunque diversa rispetto al celebre precedente di Pierre Menard, autor del Quijote: il personaggio di Borges (Ficciones, 1944) si dedica deliberatamente a comporre un testo uguale a quello di Cervantes.
(21) T. Landolfi, Viola di morte, Firenze, Vallecchi, 1972, pp. 106 e 188; la seconda strofa di Cantasti un giorno la desolazione si legge anche a p. 3. I molti riscontri leopardiani che si trovano in questo e nell’altro libro poetico dell’ultimo Landolfi (Il tradimento, Milano, Rizzoli, 1977) sono puntualmente segnalati da A. Dolfi, Leopardismo e terza generazione, in Id., La doppia memoria. Saggi su Leopardi e il leopardismo, Roma, Bulzoni, 1986, pp. 184-187.
(22) Opere, vol. II, p. 652; il finale a sorpresa (che dipende probabilmente dalla chiusa, insieme tragica e comica, del leopardiano Dialogo della Natura e di un Islandese), è certo presente all’autore dell’ultima pagina di Palomar.
(23) Opere, vol. II, pp. 147-151.
(24) La figlia di Landolfi, Idolina, si limita a dire, tra parentesi, che l’antologia di Calvino «sicuramente non avrebbe incontrato il favore dell’autore»: vedi la Cronologia anteposta alle Opere da lei curate per Rizzoli, vol. I, 1991, p. LXVI. Mentre Giovanni Raboni, salutando con favore l’iniziativa dell’opera omnia (poi, però, rimasta interrotta dopo il secondo volume), definisce Le più belle pagine un’«azione elegantemente perfida», che «era impossibile ideare e attuare con propositi più sottilmente riduttivi e liquidatori» (Devozioni perverse, in G. Raboni, L’opera poetica, a cura di R. Zucco, Milano, Mondadori, 2006, p. 922). Non credo però, in coscienza, che Calvino fosse così mal intenzionato: già l’effetto positivo dell’antologia «sulla circolazione dell’Autore in quegli anni», come nota Andrea Cortellessa (nell’introduzione, Per dar fine all’esilio, al volume a sua cura Scuole segrete. Il Novecento italiano e Tommaso Landolfi, Torino, Aragno, 2009, p. XL) fa dubitare della validità del giudizio.
(25) La definizione è dello stesso Landolfi, che nell’ultima pagina di Rien va la applica a un «raccontino» che ritiene di aver «rovinato» (Opere, vol. II, p. 364).
(26) Italia magica. Racconti surreali novecenteschi scelti e presentati da G. Contini, Torino, Einaudi, 1988, p. 249.
(27) A. Zanzotto, La pietra lunare, in Id., Aure e disincanti nel Novecento letterario, Milano, Mondadori, 1994, p. 327 (il testo era uscito in origine come nota introduttiva a T. Landolfi, La pietra lunare, Milano, Rizzoli, 1990).
(28) E. Montale, La bière du pécheur, «Corriere della sera», 25 dicembre 1953 (in Id., Il secondo mestiere. Prose 1920-1979, cit., I, pp. 1607-1609).
(29) G. Pedullà, L’“operettismo” egotistico di Tommaso Landolfi, in «Quel libro senza uguali». Le Operette morali e il Novecento italiano, a cura di N. Bellucci e A. Cortellessa, Roma, Bulzoni, 2000, pp. 197-232.
(30) Opere, vol. II, p. 286. Nella stessa pagina Landolfi porta a esempio del tema della pietà proprio L’eterna provincia, ovvero la «storia d’un uomo con gamba di legno» dispersa «tra mie carte della primissima giovinezza», che più avanti (pp. 362-363) riferisce, ma con insoddisfazione, di aver finalmente scritto.